Uno sguardo all’evoluzione dei diritti delle donne. Il focus di Giuseppe Rocco

Le donne italiane furono ammesse al voto nel 1946, in occasione del referendum istituzionale che sancì la nascita della Repubblica.  Il primo Stato europeo a conferire il voto alle donne fu il Granducato di Finlandia nel 1907; le donne britanniche di oltre 30 anni d’età e tutte le donne tedesche e polacche ebbero il voto nel 1918, quelle olandesi nel 1919, e negli Usa fu concesso nel 1920. Il gentil sesso in Turchia ebbe il diritto di voto nel 1926. Soltanto nel 1971 le donne svizzere ottennero il diritto di voto, ma con piena partecipazione integrale a livello federale nel 1990. Questo quadro esprime chiaramente la lentezza e il ritardo nella storia dell’emancipazione femminile.

L’evoluzione ha registrato nel dopoguerra un’ascesa rilevante, raggiungendo traguardi consistenti. L’incarico di primo ministro a Margaret Thatcher in Inghilterra e ad Angela Merkel in Germania, addirittura di presidente della Commissione europea a Ursula von der Leyen e di  Christine Madeleine Odette Lagarde a presidente della BCE hanno dimostrano il livello irrefrenabile di elevazione del ruolo della donna.

La riflessione sui diritti umani richiama proprio il riferimento alla condizione femminile. L’impianto ontologico, cioè di una determinata dottrina dell’essere, condiziona l’approccio scientifico e sociale. Da questa prospettiva possiamo intravvedere e definire un femminismo etico, che porta a individuare la radice di ogni disuguaglianza sociale e politica nel mancato o insufficiente riconoscimento delle capacità personali.

Si tratta di un dato di fatto, poiché in molte parti del mondo le donne non hanno sostegni per le funzioni fondamentali della vita umana. Esse sono costrette a vivere in condizioni sociali e politiche in cui sono loro riconosciute delle capacità ineguali. Ma il problema della disuguaglianza è ben più profondo. Da una parte è correlato a una condizione di povertà, che amplifica le situazioni di sfruttamento, di violenza e di abuso legalizzato contro le donne. Ciò mette in rilievo che la radice delle disuguaglianze di genere è prima di tutto culturale. Anche se vivono in una democrazia costituzionale come l’India, dove sono uguali in teoria, le donne sono in realtà cittadine di seconda classe. Se la ragione della disuguaglianza è culturale, le soluzioni da adottare sono politiche ed economiche, elaborate in risposta a questa lesione dei diritti fondamentali.

La politica internazionale e il pensiero economico dovrebbero essere più attenti alle donne, subalterne in quasi ogni paese al mondo. Detto in sintesi, si tratta di passare da considerare le donne meri strumenti dei fini altrui a «persona intesa come fine» in sé. La riflessione va chiaramente incanalata nel profilo etico. La politica dovrebbe trattare ogni persona come fine, come fonte di iniziative, valida in sé stessa, con progetti propri e con una vita propria da vivere, degna di tutto il sostegno necessario per ottenere pari opportunità per agire a sua volta. È filosoficamente fragile fare ricorso alla metafisica per dare risposta a una realtà sociale e culturale ingiusta e conflittuale, dove sono proprio gli altri (nel duplice senso di individui e istituzioni) a vanificare questa legittima aspirazione all’eguaglianza. Molta parte del pensiero femminista odierno resta legato all’ambito sociale e culturale europeo e nordamericano, invece di concentrarsi sulla condizione delle donne nei paesi poveri del mondo, dove essere donna significa pagare un prezzo particolarmente alto in termini di malnutrizione, analfabetismo, negazione del diritto di proprietà e del diritto al lavoro extradomestico. In secondo luogo, il ricorso al principio delle capacità rivela anche un’implicazione epistemologica: essa riflette i caratteri dell’universalità e della normatività. Un femminismo internazionale che voglia essere incisivo dovrà impegnarsi rapidamente nell’elaborare raccomandazioni normative che trascendano le barriere di cultura, nazionalità, religione, razza e classe.

In un approccio razionalistico, questo compito appare tutto sommato facile, però questa scoperta si rivela densa di ostacoli: tanto nel mondo nord-occidentale a motivo dell’individualismo etico dominante; quanto nel resto del pianeta a motivo della ripresa sempre più ideologica del particolarismo culturale e religioso, che identifica i diritti delle donne, radicati nella libertà e nell’autoaffermazione di sé, con la cultura neocoloniale e materialista del mondo nord-occidentale.

La normatività del pensiero etico, inizia dalla tesi secondo cui pluralismo e rispetto per le diversità sono valori universali. Purtroppo come è possibile riconoscere questa ovvia evidenza in culture che credono nella reincarnazione o in altre forme di immortalità, in cui la vita futura riserva per i giusti ricompense compensatorie delle sofferenze e delle umiliazioni sopportate in questa vita. Altrettanto nell’educazione cattolica tradizionale, la sofferenza delle donne maltrattate veniva giustificata con la promessa della felicità nella vita eterna. Esse sono basate sull’idea secondo cui la società si regge su uno scambio reciprocamente vantaggioso tra i cittadini: ma che cosa hanno da mettere sul piatto della bilancia delle relazioni sociali i portatori di handicaps permanenti e le persone che liberamente e per puro amore si prendono cura di loro? Costoro non possono vantare nessuna produttività, che giustifichi la pretesa a forme di sostegno, a differenza degli anziani che meritano sostegno per aver dedicato la vita al lavoro.  Viceversa, una società giusta deve essere organizzata in modo da fornire la cura alle persone che versano in condizioni di estrema dipendenza, senza sfruttare le donne, sulle cui spalle grava almeno l’80% del peso dell’assistenza sociale. La responsabilità di questa impostazione discriminatoria, che rende incompiuto e contraddittorio il pensiero politico liberale, viene fatta risalire all’etica kantiana e al suo dualismo che oppone decisamente razionalità e animalità, libertà e bisogno. In questo modo, si negherebbe nell’uomo il rapporto originario che esiste tra la sua dignità e la sua animalità: viene meno il rispetto per gli elementi più fragili e vulnerabili. 

Eva Kittay, filosofa femminista svedese, che ha insegnato a lungo nella Stony Brook University, si è occupata di etica, teoria sociale e politica, e dell’applicazione di queste discipline agli studi sulla disabilità. Nussbaum ripropone la sua teoria delle capacità, derivata dall’etica aristotelica: la persona umana è un essere animale dotato di bisogni, che è capace di convertire le risorse in funzionamenti. Le differenze tra gli individui stanno tutte qui: nel grado di attivazione delle proprie capacità fondamentali, che sono quelle di trasformare il bisogno in immaginazione e quella di riconoscere in ciascuno l’umanità dell’altro. Il liberalismo politico che nasce da questa antropologia materialista sviluppa un progetto di società, in cui lo Stato interviene a garantire l’esercizio dei diritti politici alle categorie più svantaggiate, mettendole in grado anche di formulare i loro bisogni fondamentali.

L’indice in base a cui si definisce il livello di benessere di una determinata società non è il grado di soddisfazione individuale, ma la maggiore o minore capacità di una determinata persona di pervenire all’autorealizzazione. Non si tratta di un compito che ciascuno deve portare a termine per conto proprio: si richiede l’intervento pubblico per disegnare il contesto materiale e istituzionale necessario a creare condizioni materiali di sostegno per tutte le capacità rilevanti. In tal modo, si possono conciliare le due istanze di libertà e giustizia, che nel pensiero liberale moderno sono state spesso in antitesi. Questo tipo di approccio toglie al liberalismo politico il suo marchio d’origine occidentale e lo apre all’incontro con altre grandi culture mondiali, perché idee di attività e di abilità sono presenti ovunque. Esso non consiste nel possesso di un bagaglio astratto di diritti e doveri, ma nella possibilità di esercitare concretamente le proprie capacità; in tal modo è possibile riconoscere la dignità anche a quelle relazioni sociali, come il prendersi cura di un portatore di handicap, in cui la reciprocità tra gli individui è asimmetrica. Non solo i disabili, ma anche le donne e le famiglie sono le categorie sociali a cui guarda questo progetto di riforma del liberalismo politico.

Le minori opportunità, di cui godono le donne in gran parte del mondo, non dipendono solo dall’assenza dei mezzi di sostegno indispensabili all’esercizio delle funzioni fondamentali necessarie a una vita realmente umana, ma scaturiscono spesso dalle disuguaglianze di capacità umane, in cui molte di esse vivono. Essere femministi in filosofia politica o in teoria economica significa invertire la tendenza dominante, per cui le donne sono state considerate come mezzi per fini altrui, piuttosto che come fini a pieno titolo. Ciò significa in concreto che la società deve imporsi sulla famiglia proprio in nome della giustizia. Non si tratta di un’ingerenza che contrasta con i principi fondamentali del liberalismo, perché in tutte le società moderne la famiglia è un prodotto dell’intervento statale: con le sue leggi lo Stato ne definisce i requisiti e stabilisce la natura giuridica del matrimonio e del divorzio. Esso non si limita a esercitare una funzione di controllo, ma contribuisce sempre alla positiva costruzione dell’istituto familiare.

La libertà non riguarda solo diritti formali, ma richiede che ci siano le condizioni per esercitare quei diritti stessi. Questo implica a sua volta la disponibilità di risorse materiali e istituzionali, compresa l’accettazione legale e sociale della legittimità delle richieste femminili. Il valore politico della libertà dipende dalle risorse umane e giuridiche che lo Stato è disposto a investire per garantire ai cittadini l’esercizio della propria libertà-capacità. Il nostro governo, nell’attuazione del PNRR vuole rafforzare e avviare un processo sulla nuova imprenditorialità femminile, con una dotazione finanziaria di 400 milioni di euro.  Dal ministero delle attività produttive era stato reso operativo il Fondo impresa donna, previsto nel bilancio 2021, destinando un finanziamento iniziale di 40 milioni di euro.

La progettualità politica deve articolarsi in base a valori universali che siano agevolanti invece che tirannici, capaci di creare spazi favorevoli alla scelta piuttosto che forzare le persone a rientrare in un modello di totale funzionamento. Si comprende molto chiaramente dalle parole di Ela Bhatt, esponente del movimento femminista indiano SEWA, «le donne non vogliono solo una fetta della torta; vogliono sceglierne il sapore e saperla preparare esse stesse». E poi subito aggiunge che questa non è altro che la trasposizione sul piano della relazione di genere della lotta gandhiana contro il dominio coloniale o della lotta dei democratici moderni contro il potere autocratico e feudale dell’assolutismo.

A conferma, la teoria delle capacità è affermata da Nussbaum, intorno al concetto di dignità umana, principio ideale che esprime una grande forza intuitiva e una grande risonanza multiculturale, proprio perché presuppone la capacità di scegliere attivamente quale orientamento indirizzare alla propria vita e di attuare le aspettative desiderate in cooperazione con altre persone. Detta identificazione è posta da Nussbaum come intuitiva: è una tesi che precede tanto i ragionamenti metafisici, quanto i sentimenti religiosi. La dignità della persona è una nozione pre-culturale. In realtà il contenuto dell’equazione verità-dignità è il frutto di lunghe osservazioni antropologiche e di altrettanto protratte negoziazioni culturali. Si tratta chiaramente di un traguardo futuro e non di una realtà già presente, così che la dignità – ovvero, la concreta attivazione delle capacità personali – diventa il fine politico primario di una società, che voglia essere democratica. La meta della politica non è soltanto il funzionamento (ad es. poter andare a scuola), ma la capacità (acquisire un’istruzione). Solo quando la capacità è stata acquisita (se è sociale) o attivata (se materiale), essa può trasformarsi in funzionamento, cioè consentire all’individuo di agire secondo la propria libertà e le proprie scelte.

Importante è scardinare la convinzione secondo cui la violenza contro le donne, pur dolorosa e spiacevole, è parte integrante della loro vita. Moltissime donne in tutto il mondo ignorano che la violenza a cui sono esposte è una violazione dei loro diritti, oltre che della legge. Questo è un caso concreto della teoria del sociologo statunitense Howard Becker su devianza e devianti: questi cittadini di serie B (neri, donne, immigrati, minoranze di qualunque tipo) interiorizzano la loro condizione di svantaggio così da essere spinti a fare scelte che perpetuano la loro posizione sociale di esclusione. Molte di loro non desiderano un bene fondamentale – come l’istruzione o il lavoro – perché sono da sempre abituate a farne a meno, o perché è stato loro insegnato che si tratta di una cosa non adatta a loro. La cultura patriarcale e/o religiosa contribuisce poi a santificare questa rassegnata rinuncia a beni di importanza primaria. Molte donne sottovalutano capacità umane fondamentali, che poi una volta acquisite tengono invece in gran conto. Già nel XIX J.S. Mill descriveva la sottomissione delle donne al dominio maschile con parole efficaci: gli uomini non vogliono soltanto l’obbedienza delle donne, vogliono i loro sentimenti. Desiderano avere non una schiava «costretta», ma una schiava consenziente, non una semplice schiava, ma una favorita. Hanno perciò messo in pratica ogni mezzo per soggiogare le loro menti. I padroni delle donne volevano qualcosa di più della semplice obbedienza e hanno adoperato tutta la loro forza nell’educazione per realizzare il proprio scopo. Questo processo di sottomissione riguarda necessariamente anche la sfera sessuale: gli uomini hanno erotizzato la sottomissione e le donne finiscono per credere nella loro sottomissione agli uomini.

Riprendendo Aristotele, la sua tesi fondamentale è che il desiderio è una parte intelligente dell’essere umano che merita rispetto in sé. Nell’atto del desiderare è già contenuta la scelta di raggiungere o meno la meta desiderata, tanto che «Aristotele definisce la scelta come delibera desiderativa o desiderio deliberato». Questa unità dinamica di desiderio e scelta, di immaginazione e attuazione non risponde soltanto all’istanza del primato del desiderio, ma soprattutto porta in sé l’idea che «la personalità è unità» e che tale unificazione della personalità si costruisce strada facendo, attraverso l’uso intelligente e equilibrato della ragion pratica: l’unità della persona non è di tipo metafisico, ma funzionale.

Allo stesso modo alle donne si riconoscono importanti capacità, necessarie per realizzare questi valori: l’abilità di percepire il bisogno degli altri e la capacità di ragionare in modo costruttivo per venire incontro a quei bisogni. Questa valorizzazione delle donne attribuisce loro un ruolo che comunque si gioca entro le mura domestiche. Il grande argomento dei tradizionalisti – la casa e la famiglia custodiscono l’integrità della donna – è seccamente smentito dalle indagini sociologiche e dalle statistiche demografiche, che rivelano che la famiglia è stata uno, se non il maggiore, dei luoghi di oppressione della donna. La famiglia riproduce ciò che contiene; se un ragazzo è allevato nel senso di superiorità nei confronti della sorella, ben difficilmente rispetterà la moglie una volta diventato adulto.

L’affetto e la cura sono quindi l’obiettivo non solo di un lento e difficile cambiamento culturale che riconosca le capacità delle donne; ma sono anche il frutto maturo di una politica sociale ispirata a un criterio concreto di giustizia. In concreto, ciò comporta che lo Stato debba avere la possibilità di intervenire a favore delle donne sin dentro le mura domestiche, trasformando la famiglia in un vero luogo di affetti e di cure. Quando ciò non succede, le politiche sociali maschiliste influiscono pesantemente sul perpetuarsi della violenza domestica in tutte le sue molteplici forme, perché le autorità politiche e giudiziarie continuano a interpretare e applicare le leggi con un atteggiamento fortemente maschilista.

La scelta politica e giuridica di fondare il riconoscimento della famiglia sull’istituto del matrimonio (per cui, ad es., le coppie omosessuali non sono famiglia in senso pieno) la dice lunga sul fatto che lo Stato è presente nella famiglia dall’inizio. È lo Stato che ci dice che cos’è la famiglia e controlla come se ne diventa membri. Dall’altra parte, bisogna anche riconoscere – dice ancora Nussbaum – che la famiglia fa parte della struttura di base della società: «i bambini ne sono prigionieri» per ragioni ovvie di sopravvivenza; «le donne ne sono frequentemente prigioniere per mancanza di simmetria economica». L’intervento di tutela dello Stato serve proprio a correggere queste situazioni, che limitano fortemente il libero sviluppo e l’esercizio delle capacità personali: lo Stato deve intervenire mosso dall’unico intento di proteggere le capacità, comprese naturalmente le capacità individuali di scegliere a quali rapporti affettivi e di dedizione dedicarsi. Anche perché gli abusi e le violenze che sono commessi al di fuori della vita pubblica, di solito sono compiuti proprio in famiglia, come accade di recente con il femminicidio: le mura di casa, più che essere una tutela dei deboli, sono uno scudo per i violenti e per i trasgressori delle leggi che regolano la vita civile. Stiamo ricordando un’antropologia sociale desunta da Aristotele e Marx. La conclusione di Nussbaum tenta di coniugare individuo e società all’interno di una teoria delle capacità naturali, deve misurarsi con la convinzione dei tradizionalisti, secondo cui «la famiglia patriarcale è naturale». Dietro a questa affermazione si nasconde uno scarso interesse per lo sviluppo personale e per l’istruzione delle figlie femmine, visto che prima o poi esse lasceranno la casa paterna e andranno a arricchire un’altra famiglia. Per contrastare questa idea ancora molto diffusa – e non solo in oriente – non basta proporre il modello borghese di famiglia, basata sulla relazione affettiva, romantica con una sola persona, tipica dell’ethos occidentale. Le energie investite dalle persone occidentali (comprese molte femministe) nel ricercare e nell’alimentare una relazione romantica sono usate dalle donne indiane per creare e sostenere gruppi di reciproco aiuto tra le donne. Questi collettivi di donne svolgono un ruolo prezioso nell’offrire alle donne affetto e amicizia, nell’occuparsi dei loro bambini, nel promuovere altre capacità. La promozione di questi collettivi di mutuo-auto-aiuto diventa perciò uno degli obiettivi fondamentali di una politica sociale, che voglia promuovere le capacità delle donne anche entro il loro quotidiano vissuto familiare e affettivo. Ma non si può dimenticare il grande valore emancipatorio rappresentato dall’aumentare le opzioni economiche delle donne. Ciò consente – a cascata – di migliorare la loro istruzione, la loro capacità di iniziativa pubblica, il loro concreto desiderio di parità all’interno della famiglia.

La tesi di Nussbaum è chiara: la famiglia non è una cellula naturale e semplice di socialità, ma è «una pluralità di strutture sociali complesse». Per questo motivo, la famiglia gioca sempre un ruolo ambivalente, favorendo e insieme ostacolando lo sviluppo delle capacità personali. Seguendo passo dopo passo lo sviluppo del ragionamento di Nussbaum, ci si rende conto che in realtà gli individui e i gruppi sono molto poco indipendenti dalle tradizioni culturali: il fatto di diventarlo è più un traguardo che un dato di fatto. In questo percorso di autoliberazione dalla cultura quale ruolo gioca la religione, che spesso è alleata delle tradizioni culturali patriarcali. La libertà religiosa e l’uguaglianza sessuale sembrano, almeno qualche volta, destinate a scontrarsi. Su questo tema, il pensiero femminista contemporaneo si divide in due grandi correnti. La posizione delle femministe secolari consiste in una «critica del dominio sessuale e la sostanza del cambiamento consiste nel trasformare i ruoli dei generi socialmente costruiti». La posizione opposta, quella delle femministe tradizionaliste, si muove sulla linea della «critica alla dipendenza economica» e il cambiamento consiste nel «dare alle donne maggiori opzioni economiche». La differenza tra le due correnti consiste nell’attribuzione di un ruolo strutturale (originario) o sovrastrutturale (derivato) alla dipendenza economica: per le femministe secolari l’economia è il riflesso della cultura patriarcale; per le femministe tradizionaliste, vale il contrario: la cultura patriarcale è il riflesso dell’economia capitalista.

Se si considera la religione unicamente come fonte di patriarcalismo, si commette un errore pragmatico e si finisce per fare il gioco dei tradizionalisti, spingendo tra le loro braccia le donne sinceramente religiose. Si commette pure un errore teorico, perché nessuna religione è soltanto autoritarismo, subordinazione e passività: le tradizioni religiose contengono e alimentano al loro interno il dialogo del pensiero, la pluralità delle convinzioni e delle pratiche di vita. La religione è anche critica e rinnovamento dei costumi, non solo legittimazione delle convenzioni sociali e delle tradizioni culturali: si pensi alle correnti profetiche e mistiche, che esistono all’interno di ogni grande religione. Il ruolo civile delle religioni è però più ampio: esse possono costituirsi come avamposti etici e culturali per un’ulteriore tutela delle donne e delle altre categorie sociali particolarmente svantaggiate. La religione è uno dei modi in cui le persone usano pensiero e immaginazione per cercare di capire ciò che conta nella vita; è anche uno dei modi attraverso i quali le persone cercano la comunità e l’appartenenza.

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About Giuseppe Rocco

Esperto di commercio estero. Vice Segretario generale della Camera di commercio di Bologna sino al 31.1.2007; Docente esterno presso l’Università di Bologna, Istituto Economico della Facoltà di Scienze politiche, in qualità di cultore dal 1990 al 2006, di “Istituzioni Economiche Internazionali” e in aggiunta dal 2002 al 2006 di “Diritti umani”; Pubblicista iscritto all’Albo dei Giornalisti dal 1985; 450 articoli per 23 testate nazionali; in particolare consulente del Il Resto del Carlino, in materia di Commercio internazionale, dal 1991 al 1995; Saggista ed autore di 53 libri scientifici ed economici; Membro del Consiglio di Amministrazione del Centergross dal 1993 al 2007;Membro del Collegio dei periti doganali regionali E. Romagna, per dirimere controverse fra Dogana ed operatori economici dal 1996 al 2000, con specificità sull’Origine della merce.