14 agosto 1944. 75 anni fa la strage di Ranzano di Fontanafredda

La presenza ingombrante dei tedeschi in Friuli ricordava a tutti che l’Italia, nonostante ne fosse fuori ufficialmente dopo l’Armistizio, di fatto era ancora in guerra. Ed era anche peggio, perché si trattava di una vera e propria guerra civile. Le zone di confine risentivano da sempre dello scontro etnico ma, all’indomani dell’8 settembre 1943, questo scontro si insinuò profondamente nella popolazione e divise coloro che si sentivano italiani da coloro che anelavano agli ideali internazionalisti proclamati dal comunismo, attratti dalla speranza di costruire una patria comune con i vicini jugoslavi. Perché anche i partigiani comunisti italiani avevano iniziato a vestire i panni degli omologhi titini esponendo una stella rossa sul berretto per differenziarsi dalle formazioni non comuniste. La situazione che si era venuta a creare spesso portò a scontri interni, seminando confusione nella popolazione civile sulla funzione che il movimento stava svolgendo in favore della liberazione dell’Italia dall’occupazione nazista. Infatti il Trentino, l’Alto-Adige, la provincia di Belluno, il Friuli, la Venezia Giulia e l’Istria erano state annesse di fatto al Terzo Reich, mentre la Repubblica di Salò, fondata da Benito Mussolini il 23 settembre 1943, si estendeva nelle regioni del Centro-Nord occupate dai tedeschi, assumendo in sostanza, contrariamente a quanto proclamato, una funzione meramente amministrativa alle dipendenze del Fürer.

Quel 14 agosto di sangue si portò via cinque persone e altrettante rimasero gravemente ferite. Giordano Davide, Giulietta Leonida Nadin (che morì dopo un mese di grande sofferenza, colpita al collo da una raffica di mitra), Aldo Peresson di soli 16 anni, un militare triestino di nome Pietro Zamburlini (fidanzato di Giulietta) e Romano Castelletto perirono innocenti in quella insensata strage nazista.

Giordano aveva un figlio Bruno di 12 anni, di cui Aldo era compagno e amico.

Sulle montagne del Cansiglio la guerra tra partigiani e tedeschi durava da un po’ ma nell’ultimo mese si era intensificata. I tedeschi stavano avendo la meglio ma non abbastanza per sentirsi appagati, anzi erano avvelenati  a causa delle numerose e cocenti sconfitte inferte loro dai combattenti italiani e, per vendetta, avevano anche iniziato a dar fuoco alle malghe. Un gruppo misto di soldati italo-tedesco composto da una sessantina di uomini, guidati dal tenente medico della  Luftwaffe Alfred Dörnenburg, reduci dalla campagna di Russia, dove avevano assistito e partecipato ad azioni particolarmente cruente, aveva dato il via a una serie di azioni di repressione che avevano tracciato una scia di morte dietro di loro. Il tenente si era conquistato la fama di torturatore per le sevizie che era uso infliggere ai partigiani nelle due prigioni a sua disposizione a Roveredo  in Piano (UD). Si raccontavano sulla sua crudeltà cose inaudite. Da medico, il tenente che si era trasferito da Aviano a Roveredo solo all’inizio di agosto, si era trasformato in un torturatore che si divertiva a infliggere sevizie non solo ai prigionieri ma anche ai condannati prima dell’esecuzione. Gli edifici in cui operava queste pratiche erano quello della Ferrobeton, un’ex rivendita di laterizi, appena fuori paese, e uno stabile in via XX settembre a Roveredo, mentre lui alloggiava vicino alla chiesa parrocchiale con il maggiore Schiffen. Il tenente si fingeva spesso un civile e, grazie alla perfetta conoscenza del dialetto, s’infiltrava dappertutto, facendo domande in giro, per arrestare le sue prede.

La guerra però si stava spostando in pianura. Una razzia di bestiame da parte dei tedeschi era avvenuta vicino Caneva e poco dopo a Ranzano di Fontanafredda era stato assassinato qualche tedesco. Due o tre cecchini avevano preso di mira un gruppo di soldati, uccidendone alcuni tra cui uno che, panciuto e trasandato com’era, aveva un’apparenza inoffensiva. Era stato perfino oggetto di qualche scherzo da parte dei ragazzi. Ma l’uomo il giorno dell’attacco conduceva con sé una mucca. Un soldato che era riuscito a sfuggire all’agguato era corso via ad avvisare il posto di Roveredo in Piano (UD), dove c’era il “Foghin”. Questo era il soprannome che Dörnenburg si era guadagnato grazie agli incendi provocati dal suo passaggio. Da lì era scattato l’ordine di uccidere civili presi a caso secondo la regola di sangue adottata dai nazisti, che richiedeva un riscatto in vite umane per ogni soldato ucciso.

La mattina del 14 agosto 1944 un cadenzare di passi annunciò il transito di una pattuglia. Giordano scostò le tendine della cucina, erano soldati della Luftwaffe.

Un forte boato, poi un secondo fecero tremare i vetri della stanza. Un trambusto. Spari, urla. Giulietta Nadin, scendendo la scala di casa, era stata colpita da una delle raffiche pazze con cui i soldati avevano annunciato la loro entrata ed ora giaceva riversa a terra, con il collo che sanguinava copiosamente.

Dove Bruno e Aldo stavano studiando si sentirono passi su per le scale. Neanche il tempo di capire, che una sventagliata di colpi atterrò Aldo. Luigi, suo fratello, iniziò a urlare guardandosi le mani insanguinate. Avevano colpito anche lui. Bruno vide il soldato puntargli in faccia il mitra, scappò dietro un armadio giusto in tempo per evitare di essere colpito; il tedesco gli si parò davanti, era in trappola!

Il ragazzo, tremando, si rannicchiò su se stesso, in attesa del colpo mortale. Ma la voce di un soldato più anziano intimò al commilitone di fermarsi, spostando l’arma da Bruno. « Es ist ein Kind!» Bruno aveva sentito urlare all’uomo «È solo un bambino!».  Queste parole echeggiarono nella sua mente nei diversi minuti in cui rimase accucciato con gli occhi chiusi e con le mani sulle orecchie. Aprì gli occhi che si rifiutavano di cedere a quell’orrore.

I tedeschi uscirono alla ricerca di vendetta. Presero a caricare sulle camionette, al seguito del plotone, tutti gli uomini adulti che si trovarono davanti. «Li portano a Roveredo!» si sentì urlare lì fuori da qualcuno «Per processarli».

Mentre chi aveva lanciato le bombe a mano proprio dal sottotetto di quel caseggiato, ormai probabilmente se l’era già svignata attraverso i sottotetti comunicanti che univano tutte le case della strada principale, tornando da dove era venuto.

Bruno tremava ancora. Trovò le ultime forze per lasciare la casa dei Peresson in stato di confusione. Corse a casa sua attraversando l’atrio del cortile interno che divideva le due abitazioni. Gli sembrò lontanissima anche se distava pochi metri. Salì con affanno le scale che portavano alla camera dei genitori. Era l’ora in cui di solito il padre faceva la sua pennichella pomeridiana.

Si fermò davanti alla porta poggiandosi allo stipite, mentre le gambe gli venivano meno. Giordano giaceva in una pozza di sangue.

Dörnenburg, appartiene purtroppo a quella folta schiera di criminali nazisti che sono riusciti a sfuggire alla giustizia umana. Quando nel 2005 fu chiamato a rispondere dei suoi crimini, la morte naturale lo colse prima del processo.

Il racconto è frutto di una lunga ricerca condotta da me che verrà prossimamente pubblicata e di cui questo è un piccolo stralcio relativo ai fatti in questione. Ringrazio per la collaborazione alcuni abitanti di Ranzano, alcuni ex partigiani combattenti, solerti e gentili impiegati comunali di Fontanafredda (PN) e l’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione di Udine che mi ha fornito utili materiali di ricerca.

Tra le pubblicazioni consultate citerò ora solo Lotta partigiana nella destra Tagliamento 1943/1945 di Mario Condotti e La guerra di liberazione nel territorio della provincia di Pordenone 1943-1945, tra le tante fonti consultate. Ma sono state soprattutto le memorie dei vivi ad aiutarmi a ricostruire una tragedia ormai dimenticata anche da chi abita in quei luoghi.

Bruno era mio padre.

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About Eleonora Davide

IL DIRETTORE RESPONSABILE Giornalista pubblicista, è geologa (è stata assistente universitaria presso la cattedra di Urbanistica alla Federico II di Napoli), abilitata all’insegnamento delle scienze (insegna in istituti statali) e ha molteplici interessi sia in campo culturale (organizza, promuove e presenta eventi e manifestazioni e scrive libri di storia locale), che artistico (è corista in un coro polifonico, suona la chitarra e si è laureata in Discipline storiche della musica presso il Conservatorio Domenico Cimarosa di Avellino). Crede nelle diverse possibilità che offrono i mezzi di comunicazione di massa e che un buon lavoro dia sempre buoni risultati, soprattutto quando si lavora in gruppo. “Trovo entusiasmante il fatto di poter lavorare con persone motivate e capaci, che ora hanno la possibilità di dare colore e sapore alle notizie e di mettere il loro cuore in un’impresa corale come la gestione di un giornale online. Se questa finestra sarà ben utilizzata, il mondo ci apparirà più vicino e scopriremo che, oltre che dalle scelte che faremo ogni giorno, il risultato dipenderà proprio dall’interazione con quel mondo”.