Autonomia differenziata, un torto al SUD. Il Focus di Giuseppe Rocco

La Lega pretende maggiore autonomia per le regioni Lombardia e Veneto, a cui si è aggiunta nelle richieste l’Emilia-Romagna. Si tratta in verità di una secessione mascherata, nel silenzio della stampa, del Parlamento e delle istituzioni meridionali. Anziché perequare le risorse regionali, si cerca di regalare a tre regioni, in nome di una presunta efficienza amministrativa nell’offerta dei servizi pubblici, miliardi di fondi. Sarebbe assurdo per esempio avere venti sistemi scolastici diversi, con stipendi pure differenziati.

Chi volesse descrivere in modo obiettivo il regionalismo italiano oggi, dovrebbe riscontrare, innanzitutto, una situazione di ambiguità politica. Alle regioni i mass media imputano pubblicamente le colpe di aggravare la situazione della finanza pubblica.

La contestazione assume il momento culminante nel 1992, quando si arriva ad ipotizzare persino una soppressione dell’istituto; tuttavia si avverte che con la riforma del Titolo V, operata tra il 1999 e il 2001, appare pressoché impossibile pensare a una soppressione delle regioni. Questo andazzo finisce per determinare una disfunzione del sistema repubblicano: le regioni e le autonomie locali sono in una condizione di contestazione che sta toccando in particolare la provincia, quale ente di area vasta, e cagiona una certa ripulsione della politica da parte dei cittadini.

L’Assemblea Costituente, nel momento in cui si pone il problema dell’articolazione della Repubblica, affronta in modo concreto il dibattito sulla regione che, dall’unità d’Italia in poi, aveva animato la vita politica e la letteratura giuridica, economica e sociologica. L’idea regionale, nel redigere il Titolo V, tiene conto del mito dell’unità nazionale, mai realizzata in Italia per le differenze territoriali, di natura linguistica, storica e sociale, che potevano convivere solo grazie a una forma che consentisse di farle convergere gradualmente in un assetto più omogeneo delle diverse parti del paese.

Il progetto di legge sull’autonomia differenziata ha ottenuto il primo via libera in Consiglio dei ministri. L’attribuzione delle funzioni alle Regioni potrà avvenire solo dopo la determinazione dei Livelli essenziali delle prestazioni (LED), da definire con un Decreto della presidenza del Consiglio dei ministri (Dpcm) entro l’anno in corso, come previsto dall’ultima legge di Bilancio. Il percorso di intesa fra Regione e Stato richiederà almeno 5 mesi, inclusi i 60 giorni previsti per l’esame del Parlamento. La lista delle materie trasferibili è fissata dall’articolo 117 della Costituzione, e toccherà alle Regioni che lo vorranno, come Veneto e Lombardia ma anche Emilia-Romagna e Toscana, negoziare con il Governo l’elenco delle competenze da trasferire.

Tutto semplice, vero? Invece è tutto complicato e disarmonico, poiché una diversità di deleghe alle attività regionali accresce il marasma che regna nel territorio regionale e aumenta il potere dei presidenti delle regioni, i quali stanno diventando tanti capetti, con la voglia di comandare.

Vediamo cosa accadrà nel futuro, secondo questo sciagurato modello politico. Alcune regioni del Nord avranno risorse economiche per sviluppare i loro poteri e aumenteranno il divario con le regioni del Sud, che in partenza non dispongono della base operativa. Il sogno di poter assistere ad uno sviluppo dinamico e nazionale va in frantumi: le differenze aumenteranno vistosamente. L’elemento intrigante e sibillino che emerge nel dibattito è davvero sconvolgente. Uomini di governo regalano affermazioni di grande strategia per aiutare il Sud, dietro le quali si nasconde un disegno di egemonia del Nord leghista, impegnato in modo sotterraneo verso la sospirata secessione.

Si sperava che dopo lo strappo piemontese, che palesemente ha imposto regole degenerative ai popoli artatamente conquistati nel resto dell’Italia dopo l’unificazione, si potesse iniziare una vita di armonizzazione del popolo italiano. Invece tutti i richiami nel corso dei decenni sono stati messaggi mistificatori.

Facciamo un passo indietro. Nel 1860 con l’impresa garibaldina viene costituito il regno d’Italia. L’amministrazione sabauda si rivela inefficiente e il rigido fiscalismo finisce con il sottrarre risorse all’agricoltura meridionale a vantaggio degli investimenti nel Nord. Il vecchio Stato piemontese si era formato sul modello francese, rigidamente accentrato, con un Prefetto in provincia che agiva da onnipotente e un Sindaco di nomina regia, cioè un funzionario dello Stato. Con questa architettura, si è avviato un processo definito di “piemontesizzazione”, nel senso di estendere tutte le culture al resto d’Italia senza verificare i costumi esistenti nei vari territori e senza riscontrare le diverse esigenze, con un’attuazione della politica dell’accaparramento delle ricchezze.

L’attuale ideologia della Lega, avallata dal Governo per ragioni di sopravvivenza, reincarna la trama piemontese di espansione territoriale che sfrutta, decisamente a vantaggio della Lombardia, l’ideale unitario. Si vuol rilevare che la Lega lombarda e veneta vedono i fratelli del Sud come una conquista territoriale, senza voler nulla concedere. Ne discende che dietro la volontà delle autonomie differenziate, si perpetrano diverse forme di violenze legali, compiendo uno strappo nelle aspettative.

Piuttosto varrebbe la pena di sostenere un progetto mediterraneo di solidarietà, al fine di riconoscere il nostro Paese leader di questa storica zona. Proprio in tale processo il Sud Italia potrebbe acquisire un ruolo di grande fervore produttivo. Ma questo progetto non interessa alla Lega.

Negli anni che seguono l’unificazione, i progetti avviati per la valorizzazione del Nord conoscono grandi risultati, senza che l’armonia del Paese possa trovare soddisfazione. La problematica si blocca con le due guerre mondiali, che distrae ovviamente da impegni di armonizzazione.

Nel secondo dopoguerra, si torna alla carica per il sollevamento del Sud, ricorrendo a diversi progetti, come l’istituzione della Cassa del mezzogiorno, raggiungendo buoni risultati. Il trentennio dell’oro dell’Italia, quello culminato con il boom economico, si è realizzato in quanto il Sud è divenuto parte integrate delle strategie di sviluppo nazionale: ciò ha fornito lustro a tutti territori. Molti soldi investiti nel Sud sono ritornati all’economia del Nord. La Svimez ha calcolato che per ogni euro investito nel Sud 40 centesimi sono tornati all’economia del centro Nord, in termini di beni e servizi per le imprese settentrionali. La crescita del Sud è un affare per l’economia italiana.

I governi democristiani hanno tentato in modi diversi di ottenere la perequazione, ma non hanno capito che per poter far risorgere il Sud occorreva prima debellare la mafia. Questo maledetto fenomeno non è stato aggredito come avrebbe voluto l’eccezionalità della malavita, sperando di superare il circolo vizioso mafioso con le leggi normali, dimenticando che il testimone, previsto dalle nostre leggi, non può esistere in quanto rischierebbe la morte. In un secondo tempo le cose sono migliorate, quando la politica giudiziaria si è orientata sulle intercettazioni, tecniche valide per poter porre alla sbarra i delinquenti.

La seconda Repubblica inverte il processo. L’avvento di Berlusconi, condizionato da Bossi (sempre razzista) pende per la Lombardia. Le possibilità di risanamento diventano sempre più scarse. Ebbene giungiamo al governo Meloni. Non sembra vero ai secessionisti, in primis il ministro Calderoli, di poter avviare un regime di autonomie differenziate, descrivendone falsamente gli obiettivi di successo e cercando di illudere gli inesperti di politiche sociali.

La svolta continua e sempre più incessante di accrescere il potere regionale, da far diventare questi enti degli Stati nello Stato, come è apparso chiaro nella fase iniziale della pandemia, in cui occorreva un coordinamento nazionale senza ostacoli alla realizzazione. Gli interventi dei presidenti delle regioni (che si fanno chiamare impropriamente governatori) hanno determinato qualche ritardo e forme di confusione.

Se rivolgiamo il pensiero alle regioni a statuto speciali, la critica diventa più sconvolgente. Come si fa a giustificare regione speciale il Molise e la Val d’Aosta. Questa ultima dovrebbe essere una provincia del Piemonte, alla stregua di Alessandria e di Cuneo. Assistiamo purtroppo a spese senza freno senza giustificazione. Come facciamo a pareggiare il bilancio pubblico in queste condizioni?

La complessità e la eccessiva autonomia nella gestione hanno nel tempo alimentato una spesa enorme, non paragonabile alle funzioni ed ai servizi erogati. Una visione attuale potrebbe essere giustificata in un assetto confederale, dovuto alle diversità delle popolazioni o al primo stadio di unificazione di una Nazione. L’Italia può vantare un popolo eterogeneo ma di simili costumi e pertanto non appare giustificata una composizione federale, soprattutto se la gestione comporta uno spreco enorme di energie, amministrata da organi pletorici. Tuttavia prescindendo dalle spese, resta una connotazione promiscua poco efficiente: le scuole aprono in giorni diversi, la caccia inizia in giorni diversi, e via di seguito. Se vogliamo sanare le finanze pubbliche e se vogliamo consacrare l’uniformità delle regole, dobbiamo ridurre il peso politico ed autonomo delle regioni, anziché pensare ad altre istituzioni. Anzi occorre ridurre le competenze in materia di commercio estero, distribuzione di energia, trasporti e turismo, a beneficio dello Stato. In verità una lieve riduzione è stata apportata in materia di commercio estero e nella distribuzione di energia: ben poco per quanto riguarda le materie, ma bisogna intaccare il potere enorme quasi a livello statuale di cui dispongono oggi.

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About Giuseppe Rocco

Esperto di commercio estero. Vice Segretario generale della Camera di commercio di Bologna sino al 31.1.2007; Docente esterno presso l’Università di Bologna, Istituto Economico della Facoltà di Scienze politiche, in qualità di cultore dal 1990 al 2006, di “Istituzioni Economiche Internazionali” e in aggiunta dal 2002 al 2006 di “Diritti umani”; Pubblicista iscritto all’Albo dei Giornalisti dal 1985; 450 articoli per 23 testate nazionali; in particolare consulente del Il Resto del Carlino, in materia di Commercio internazionale, dal 1991 al 1995; Saggista ed autore di 53 libri scientifici ed economici; Membro del Consiglio di Amministrazione del Centergross dal 1993 al 2007;Membro del Collegio dei periti doganali regionali E. Romagna, per dirimere controverse fra Dogana ed operatori economici dal 1996 al 2000, con specificità sull’Origine della merce.