Civiltà caducata. Il focus di Giuseppe Rocco

Il ritmo del cambiamento tende ad essere troppo rapido e vertiginoso, per cui i nuovi fenomeni esplodono. L’esperienza non riesce a consolidarsi in atteggiamenti e schemi di comportamento; non riescono le dinamiche del progresso a registrare con tracce durevoli la trasformazione benefica. In un contesto di discontinuità, i cambiamenti evolutivi non possono acquisire la visibilità traslata nella concezione di vita. La civiltà viaggia ad un passo ridotto rispetto al progresso; ne discende una asimmetria in cui la dinamica del progresso procede senza interruzione, mentre l’etica, la morale e la civiltà scattano a singhiozzo in quanto devono essere recepite dalla mente umana e non basta premere un bottone.

Nell’ambito del processo formativo, la famiglia occupa il primo posto. Essa è un organismo sociale essenziale e solido, a cui è demandato il compito di occuparsi della riproduzione biologica e della vita sessuale, con una copertura di iniziazione della cultura tradizionale. Gli studi storici e antropologici dimostrano che nel tempo la forma assunta dalla famiglia è cambiata: dalla famiglia patriarcale tipica della società agricola siamo passati a alla famiglia nucleare della industrializzazione. Sono rimasti inalterati alcuni concetti essenziali, quali la socializzazione delle nuove generazioni, il reciproco soccorso nei momenti di difficoltà, la cura delle relazioni, in una dimensione di consistente adattamento.

La società industriale avanzata non riesce a trasformare la famiglia in una comunità espressiva, di mutuo affetto e comunicazione interpersonale, finalizzata alla massima creatività dei suoi membri, ossia verso l’acquisizione della felicità personale e il desiderio di innovazione. Tende a divenire sempre più una convenzione, una scatola vuota, un tassello della società, anzi un punto di riferimento, una mini struttura di servizi primari. A questi aspetti esteriori di unità minima della società fanno riscontro problemi interni, densi di conflitti. Problema ulteriormente accresciuto dal crescente aumento dell’unità “single”, che sta modificando l’assetto societario.

Il rapporto genitore-figli è sottoposto a incomprensioni. Non soltanto per una crisi generazionale giustificata da periodi diversi e sensazioni nuove, ma da un rapporto su cui cade quotidianamente un acido corrosivo, che sbianca e altera il colore e il tono della struttura. Il processo di formazione del giovane avviene con sbalzi repentini nella nuova fisionomia societaria. L’unità-famiglia assume il volto di agenzia di orientamento allo sviluppo della vocazione personale dei figli, piuttosto che di controllo sociale; i genitori non sono in grado di fornire modelli significativi di identificazione, informazioni e strumenti culturali aggiornati con le strutture esterne. La comunicazione cincischia, si rifiuta il modello delle decisioni, si scarica sulla famiglia l’enorme peso di amarezze prodotte dalle vicissitudini giornaliere. L’equilibrio diviene faticoso per la difficoltà a dosare i compiti. E’ un tentativo continuo per provare di divenire regista della gestione complessiva. Anche per le piccole cose maturano i drammi, come ad esempio la scelta del posto dove trascorrere le vacanze. Tuttavia il figlio segue ere storiche: la prima sino ai tredici anni circa è caratterizzata da affetto-adorazione verso uno o ambedue i genitori; la seconda dai tredici ai 25/26 anni da affetto-repulsione; la terza oltre i ventisei registra la riscoperta matura dell’affetto-legame.

Dopo la famiglia, l’organismo deputato alla formazione è la scuola, simbolo della cultura, dell’educazione e della formazione. Il bullismo contraddice al ruolo della scuola, poiché coinvolge ragazzi, spesso minorenni. Colpire la dignità personale di coetanei all’interno di una istituzione pubblica aggrava la responsabilità tanto dei colpevoli, quanto di chi ha l’obbligo di educare e vigilare. Le manifestazioni di bullismo non rappresentano momenti isolati di ragazzacci, ma costituiscono lo specchio di un malessere più ampio che si consuma all’interno del simbolo dell’educazione e che fiorisce mentre andrebbe estirpato. Inoltre colpisce ancor di più il fenomeno collegato, consistente nel mancato ravvedimento e l’autocompiacimento che spinge a divulgare le prove dei fatti sui social, reiterando le vessazioni e facendone compartecipi altri ragazzi.  Va pure aggiunto che prevaricazioni di questo tipo non si concludono nel semplice episodio, ma vengono ripetuti confermando una percezione della violenza sul più debole come modello di comportamento. Tutto ciò mette in luce una grave carenza educativa e un’organizzazione strutturale non consona ai tempi e neanche al popolo italiano. I disagi giovanili vanno sanati e canalizzati verso l’apprendimento collettivo, in una cornice di crescita sociale, e non presi come spunto per avviare un clima di spavalda violenza, capace di favorire la pedissequa imitazione.

Indi al terzo grado della formazione troviamo lo Stato, che va correttamente amministrato. Nella cultura ci sta l’economia del benessere, che deve assicurare ai cittadini la dignità della vita, in primis con il lavoro. L’occupazione viene garantita dall’impresa, soggetto economico sostenuto dallo Stato. In questo assetto diventa rischioso abbandonare le aziende, le quali finiscono col trasferirsi all’estero, riducendo l’occupazione in Italia. Occorre ridurre e graduare la tassazione per evitare appunto il fenomeno della delocalizzazione e rifiutare agevolazione fiscali e tributarie alle aziende che scelgono di abbandonare il Paese. Va pure assicurata una condotta che freni il potere delle holding, le quali adottano modelli planetari con i quali raggiungono grossi profitti e sfruttano la manodopera. Le multinazionali si avvalgono della multiterritorialità per stabilire la sede fiscale in nazioni che preservano un basso tasso di tassazione; producono beni con il rispetto minimo delle condizioni sanitarie; impongono con il loro potere delle scelte agli stessi Stati ospitanti.

Nel novero delle scelte ovviamente non si può escludere il settore creditizio, che gestisce moneta e facilita investimenti. In Italia si è creata o meglio si è determinata una situazione di disparità nel territorio. Un recupero per il centro Sud sarebbe prezioso, proprio per intensificare un rapporto importante fra cittadino e banca, rapporto diluito dopo il trasferimento del Banco di Sicilia a Unicredit, pilotato a Milano e dell’incorporamento ultimo del Banco di Napoli da parte del gruppo Intesa, residente a Torino.

I nostri Istituti di credito vanno tonificati e plasmati verso una struttura che riacquisti i caratteri originari del credito, ossia tornare a sostenere l’economia e soddisfare i cittadini. Ci riferiamo ad un impegno con finalità pubbliche, abbandonando la tendenza confermata in varie branche dell’efficientismo selvaggio, basato sul guadagno ignorando i protagonisti passivi (utenti e dipendenti). Oggi le banche hanno assunto una fisionomia sulla falsariga delle consorelle americane, in cui l’istituto pensa soprattutto al profitto, innescando meccanismi di efficientismo selvaggio e ricorrendo all’emissione di derivati; infatti riducono gli sportelli per concentrarli (stesso andazzo antisociale delle poste) provocando caduta dei livelli occupazionali, accentrano i servizi costringendo i clienti a rispettare lunghe code, a fronte di versamenti rifiutano persino la contabile, promettendo l’invio in computer, fra l’altro operazione discutibile sul piano legale. La banca deve riappropriarsi delle finalità pubbliche e certamente lo Stato deve approntare una efficace azione di controllo, applicando sanzioni severe. Inoltre il sistema deve essere diretto e governato da economisti e non gestiti da soggetti scelti fra gli amici della politica e dei movimenti e persino dalle lobby. Solo con detta impostazione il credito potrà vantare un’opzione di credibilità nel sistema economico nazionale.

La lentezza con cui cresce la civiltà nell’era moderna è imputabile a due cause. La prima riguarda certamente il declino dell’etica. La crisi favorisce la nascita dell’anomia, quel fenomeno in base al quale si cerca di raggiungere i propri obiettivi sgomitando e non rispettando le regole, quasi a latere del codice penale, lasciandosi catturare dalla sindrome dell’ambizione. La seconda causa interessa il condizionamento umano. La civiltà porta la democrazia, il voto per ogni cittadino, cosa di grande portata ma che può nascondere condizionamenti negativi. Nel 1895 il sociologo francese G. Le Bon scrive il saggio “Psicologia delle folle”, nel quale analizza la natura della folla. Nell’opera afferma che la folla è un agglomerato di individui che possiede caratteristiche diverse da quelle dei singoli individui che lo compongono; la personalità cosciente svanisce, mentre i sentimenti e le idee si orientano nella medesima direzione; la folla diventa impersonale e anonima e agisce in modo irrazionale, mossa da impulsi originati dall’inconscio e sfuggenti a qualsiasi controllo da parte della coscienza. L’individuo nella massa perde la personalità annullandosi in una sorta di anima collettiva, ma acquisisce un tal senso di potenza da lasciarsi andare agli istinti più iniqui.

Impulsiva e incapace di volontà, priva di capacità critica, la folla ha bisogno di un leader che la guidi nell’azione. Infatti il dittatore si presenta alle masse come capace di incarnare e realizzare le loro aspirazioni, anche quelle irrealizzabili. Mentre l’oratore si affida al ragionamento logico, il dittatore o l’aspirante leader tenta di sedurre, adulare ed esaltare la massa con metafore, similitudini ed esclamazioni in grado di suscitare reazioni emotive. Assistiamo alla manipolazione della coscienza collettiva e all’imposizione del capo carismatico, in cui il singolo diventa massa. I regimi cercano di appropriarsi in modo totale della società creando consenso attraverso la propaganda, modelli di comportamento, cerimonie e sfilate finalizzate a coinvolgere emotivamente le masse. Per conseguire tale risultato, ogni aspetto della vita privata viene subordinato al bene dello Stato: la massa rimane suggestionata dal mito della nazione e il capo presentato come un Dio terreno, investito di sacralità carismatica.

Con il declino dell’etica e con il condizionamento abbiamo descritto una democrazia irregolare e una civiltà impura. L’uomo deve elevarsi e cercare di seguire traiettorie di genuinità della civiltà, rivolta al benessere dei cittadini e all’elevazione dei valori. Proprio queste impurità nella crescita sociale rallentano il grado di civiltà storica e pertanto il livello risulta più basso rispetto al progresso, che invece continua la sua ascesa essendo una componente tecnica scevra di impulsi umani.

Print Friendly, PDF & Email

About Giuseppe Rocco

Esperto di commercio estero. Vice Segretario generale della Camera di commercio di Bologna sino al 31.1.2007; Docente esterno presso l’Università di Bologna, Istituto Economico della Facoltà di Scienze politiche, in qualità di cultore dal 1990 al 2006, di “Istituzioni Economiche Internazionali” e in aggiunta dal 2002 al 2006 di “Diritti umani”; Pubblicista iscritto all’Albo dei Giornalisti dal 1985; 450 articoli per 23 testate nazionali; in particolare consulente del Il Resto del Carlino, in materia di Commercio internazionale, dal 1991 al 1995; Saggista ed autore di 53 libri scientifici ed economici; Membro del Consiglio di Amministrazione del Centergross dal 1993 al 2007;Membro del Collegio dei periti doganali regionali E. Romagna, per dirimere controverse fra Dogana ed operatori economici dal 1996 al 2000, con specificità sull’Origine della merce.