DERIVATI, tarlo opaco del mercato. Il focus di Giuseppe Rocco

Parliamo di derivato, quando il prezzo diuno strumento dipende da un altro contratto finanziario o di un bene reale sottostante (merci), oggetto di scambio in un mercato a pronti o in un mercato in cui prevale la funzione di approvvigionamento (documento rappresentativo dell’attività finanziaria. I contratti derivati sono strumentali alla copertura del rischio di variabilità dei prezzi degli strumenti finanziari. I più frequenti sono: Forward, Options, Financial futures, Swap.

Essi costituiscono un vero pericolo per la stabilità finanziaria poiché il prezzo è determinato dal valore di un altro strumento; in altre parole è una scommessa: se domani nevica devo pagare altrimenti devo incassare. Il fenomeno degenerato appare come una violazione dell’etica, che investe il mercato finanziario e tutta l’economia, disseminando crisi e povertà.

I contratti derivati, come si affermava, sono scommesse e certamente speculazioni che andrebbero superate per il bene dell’economia mondiale. Questi contratti espongono gli Istituti di credito a due tipi di pericolo. Il primo è legato al “rischio di credito”, nel caso la controparte con cui è stipulato il derivato fallisca; in alcuni casi sofisticati, la banca accende due titoli diversi con la stessa controparte, con posizioni opposte che si annullano in caso di fallimento. Il secondo rischio è quello di mercato, nel caso i titoli si muovano in maniera improvvisa, causando perdite eccessive su una determinata posizione e creando sbandamenti in termini di microeconomia.

I nostri Istituti di credito vanno tonificati e plasmati verso una struttura che riacquisti i caratteri originari del credito, ossia tornare a sostenere l’economia reale e soddisfare i cittadini. Ci riferiamo ad un impegno con finalità pubbliche. Oggi le banche hanno assunto una fisionomia sulla falsariga delle consorelle americane, in cui l’Istituto pensa soprattutto al profitto, innescando meccanismi di efficientismo selvaggio e ricorrendo all’emissione di derivati.  La Banca deve riappropriarsi delle finalità pubbliche e certamente lo Stato deve approntare una efficace azione di controllo, applicando sanzioni severe. Inoltre il sistema deve essere diretto e governato da economisti e non gestiti da soggetti scelti fra gli amici della politica e dei movimenti e persino dalle lobby.

L’affermazione dei cosiddetti strumenti derivati hanno invaso i territori, lusingando per la soluzione nel breve periodo ma radicalizzando pecche strutturali nel tessuto socio-economico. La crisi diffusa ha investito l’intero sistema bancario e finanziario mondiale; ciò si pone a demerito dell’impostazione del Fondo monetario internazionale, incapace di prevedere e di gestire situazioni tipiche per il proprio ruolo. Le evidenti deviazioni mostrate da una finanza incontrollata indicano la mancata gestione di un fenomeno esuberante e irreversibile della globalizzazione e confermano la necessità di riformare l’architettura internazionale degli istituti multilaterali. In altre parole non possiamo assistere all’imperversare di banche di investimento strumentale, di fondi speculativi (hedge funds) e strumenti di finanza derivata che vanno ad alterare la produzione e l’economia reale, lasciando l’umanità in una condizione precaria e incerta, sempre incline a subire crisi a catena, inquietanti dislivelli, rabbia espressa e inespressa all’impotenza dello Stato.   

Lo Stato non riesce a controllare il capitale, il quale non ha fissa dimora e controlla flussi finanziari al di sopra delle Nazioni. L’unico rimedio appare la presa di coscienza a livello mondiale, per poter assumere una Convenzione sulle Borse valori in modo da evitare le speculazioni e desistere dall’utilizzo dei derivati, veri imbrogli al mercato effettivo.

Nella Borsa quindi hanno acquisito un grosso ruolo i “pezzi di carta denominati derivati”, che stanno negativamente trasformando l’economia mondiale con il regalare la gestione ad holding e Corporazioni. Si sta verificando quel fenomeno sociologico di idolatria del mercato finanziario, che rovescia il rapporto sociale delle persone verso le cose: gli uomini si trovano sotto il controllo di queste anziché averle sotto il proprio controllo.

La definizione di titoli derivati è molto ampia. Il tratto che tutti i derivati hanno in comune è che sono titoli il cui valore “deriva” da qualcos’altro: due persone si accordano e scommettono sull’andamento dei prezzi di una materia prima o di un tasso di interesse. Sono derivati sia i titoli basati sui mutui primari sia i contratti futures sulla vendita di pomodori. Molto più di frequente sono titoli agganciati all’andamento del cambio di una moneta, di un tasso di interesse o sono assicurazioni contro la possibilità di un fallimento.

Uno dei derivati più diffusi è il Credit default swap. In questo derivato una delle due parti si “assicura” contro l’eventualità di un default di una terza parte (cioè di un suo fallimento). Ad esempio, una banca “assicura” con dei Cds alcuni titoli di Stato che acquista. La banca verserà regolarmente un premio all’assicuratore che gli ha venduto il Cds, mentre l’assicuratore si impegna in cambio a rifondere la perdita (con denaro o ritirando il titolo di stato coinvolto) nel caso si verifichi “un evento di credito”, cioè se l’emittente dei titoli dichiara fallimento. Per capire come mai però dei derivati non si può fare del tutto a meno, bisogna parlare di arance americane. Il derivato nasce come strumento finanziario per assicurarsi contro dei rischi ed è uno strumento che, in teoria, ha il vantaggio di incentivare la stabilità del mercato. Se io temo che l’anno prossimo il prezzo delle arance che produco si dimezzerà rispetto a quest’anno, posso acquistare un futures, con cui mi impegno con un compratore a vendergli, tra un anno, le mie arance a due terzi del prezzo di oggi. Se l’anno prossimo il prezzo delle arance effettivamente dimezzerà, io ci avrò guadagnato.

Come valutazione politica ed economica, va in primo luogo riaffermato il concetto che i derivati non possono essere considerati uno strumento ordinario o straordinario di gestione del debito, nonostante l’accettazione da parte di esponenti di spicco del mondo politico italiano.

Nella realtà gli strumenti derivati sono la forma più significativa di investimento a elevata leva finanziaria (elevata leva finanziaria vuol dire: mettendo poco capitale si può guadagnare o perdere molto). Il contratto futures viene sottoposto da due parti: il venditore che si impegna a vendere alla scadenza l’attività sottostante nella quantità stabilita dal contratto al prezzo fissato e il compratore che alle stesse condizioni si impegna ad acquistare. A garantire le due parti, si interpone un soggetto istituzionale “cassa di compensazione e garanzia”, che chiede idonee garanzie, quali il deposito di una somma pari a una percentuale del controvalore totale dell’operazione.

Con le options (opzioni), l’acquirente di un contratto non si obbliga a dare esecuzione futura alla compravendita ma ne acquisisce il diritto. Per tale diritto di scelta, l’acquirente deve versare una somma (detto premio).

I derivati si stanno dimostrando numerosi e pericolosi. Un esempio può chiarire la situazione, ossia il richiamo al dissesto finanziario del 2008 generato da specifici derivati da parte degli investitori che possedevano un grosso portafoglio di mutui immobiliari.

La crisi deriva dalla sfiducia degli operatori per lo strumento finanziario soggiacente, da cui i “credit default swaps” erano derivati, in quanto le banche avevano prestato ingenti somme a cittadini non in grado di rimborsare il mutuo. Le banche scommettevano sull’aumento costante del valore degli immobili, in un clima di politica monetaria espansiva.

Il dubbio degli investitori ha fatto crollare il castello di cartapesta, trascinando nel vortice il mercato dei derivati e le stesse banche. L’esborso pubblico per salvare le banche ha creato indebitamente e l’economia è entrata in recessione.

Il nuovo paradigma tecnologico esprime un andamento artificiale e catastrofico in quanto non viene accompagnato da cambiamenti istituzionali e sociali e pertanto la ricchezza si accumula in un’unica direzione, nelle casse dei capitalisti. La ineguale distribuzione del reddito avrebbe necessitato di investimenti pubblici e privati per favorire l’allargamento della domanda di beni, tramite forme di credito al consumo che avrebbe ampliato il mercato interno. Come conseguenza l’attività produttiva viene frenata.

Nella sequenza storica, i “mutui subprime” sono diventati il virus che ha infestato l’America da quindici anni e ha diffuso il contagio nel resto del mondo. Dai mutui agli investimenti nei derivati, che vengono comprati e ceduti in un giro vorticoso nel quale, non esiste più alcun rapporto tra il prezzo del titolo e il valore effettivo degli immobili sui quali è stato concesso il mutuo o avviato l’investimento. Possiamo continuare in un processo infinito di derivati, ricombinati, rivenduti e rifinanziati in modo misterioso e nocivo, creando squilibri imprevisti.

Negli anni novanta, quasi a cavallo della fine del secolo ventesimo, scatta il ciclo di conversione delle obbligazioni con il potenziale speculativo più elevato. I contratti derivati assumono un grosso ruolo quantitativo, condizionante per la futura attività borsistica, al punto da alimentare un’offerta smisurata in una rete inestricabile di transazioni.  A mettere ulteriormente il pepe nel mercato finanziario si inseriscono gli eventi politici, spesso determinanti per l’aumento o il calo di Borsa. Così in un sistema patologico, la finanza una volta ancella dell’industria ha preso il sopravvento come forza motrice del capitalismo. Parliamo di una conversione da beni in “carte”, che certo non arricchisce il patrimonio dell’umanità. La stella polare della speculazione attrae la psicologia di massa del mercato, in cui la finanza – in ossequio al feticcio della carta portatrice di liquidità – costringe le Nazioni a dover ricomporre gli obiettivi e gli scopi nazionali, senza grosse garanzie di successo.

Quando nell’utilizzo dei derivati si scorge un ente pubblico e addirittura il Ministero del tesoro il problema diventa allarmante per i risvolti negativi sulla penalizzazione delle imposte sui cittadini, chiamati a corrispondere per gli ammanchi gestionali.

La globalizzazione appare come un fenomeno incontestabile per la sua portata; risulta pure irrefrenabile in una dimensione internazionale; conferma il concetto di panacea per la rapidità delle comunicazioni in tutti i sensi. Le sue manifestazioni, abbandonate all’arbitrio del mercato, possono pregiudicare l’esistenza in modo consistente. Al riguardo abbiamo verificato i rischi ecologici, per abbassamento del livello della bontà dei prodotti e per stravaganza nelle lavorazioni inquinanti; abbiamo pure avvertito gli scompensi di un mercato finanziario, in balia di speculatori mascherati da operatori economici, i quali creano momenti di guadagno a scapito dell’economia reale; gli Stati perdono il loro potere e non riescono a intercettare le perturbazioni, osservando passivamente la caduta dei valori e del benessere. Comprovato che il fenomeno di grosse dimensioni, noto come globalizzazione, diventa uno strumento di rara potenza, suscettibile di apportare danni e benefici, sembra del tutto naturale postulare l’impostazione di un sistema mondiale in grado di filtrare e agevolare tutto ciò che riguarda la crescita individuale e collettiva, nonché di captare i guasti diretti o dissimulati per isolarli e bloccarli. Un’operazione completa ed esaustiva diventa impossibile in un pianeta dove le forze in campo sono tante e i protagonisti irrompono con fermezza subdola sul mercato, tuttavia lo sforzo di arginare i danni va in ogni modo profuso, nella convinzione che la maggior parte delle azioni saranno controllate e sottoposte a cernita. Purtroppo si annovera sotto la presidenza di Bill Clinton il varo della nefasta deregulation dei derivati, foriera di catastrofi per l’economia mondiale e di ricchi profitti per i banchieri.

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About Giuseppe Rocco

Esperto di commercio estero. Vice Segretario generale della Camera di commercio di Bologna sino al 31.1.2007; Docente esterno presso l’Università di Bologna, Istituto Economico della Facoltà di Scienze politiche, in qualità di cultore dal 1990 al 2006, di “Istituzioni Economiche Internazionali” e in aggiunta dal 2002 al 2006 di “Diritti umani”; Pubblicista iscritto all’Albo dei Giornalisti dal 1985; 450 articoli per 23 testate nazionali; in particolare consulente del Il Resto del Carlino, in materia di Commercio internazionale, dal 1991 al 1995; Saggista ed autore di 53 libri scientifici ed economici; Membro del Consiglio di Amministrazione del Centergross dal 1993 al 2007;Membro del Collegio dei periti doganali regionali E. Romagna, per dirimere controverse fra Dogana ed operatori economici dal 1996 al 2000, con specificità sull’Origine della merce.