Felicità, una chimera? Il focus di Giuseppe Rocco

Aspirazione tra le più avvincenti e complesse della cultura planetaria, la felicità cattura l’uomo con trainante carica emotiva. Dai tempi di Aristotele, la felicità dipende dall’esercizio delle virtù. Il concetto è stato ripreso ed ampliato ed arricchito da San Tommaso. In tempi recenti gli studi stanno confermando l’impostazione.

ll paradosso della felicità è una nozione introdotta nel 1974 da Richard Easterlin, professore di economia all’Università della California meridionale, il quale, indagando le ragioni della moderna crescita economica, conclude che nel corso della vita la felicità delle persone dipende molto poco dalle variazioni di reddito e di ricchezza. Secondo Easterlin il paradosso consiste nel fatto che, quando aumenta il reddito, e quindi il benessere economico, la felicità umana aumenta fino a un certo punto, ma poi comincia a diminuire, seguendo una curva a U rovesciata.

Questa idea si ritrova espressa in modo diverso anche nel pensiero economico moderno a partire da quello del filosofo scozzese Adam Smith,    considerato fondatore dell’economia politica moderna, che evidenzia come il povero lavora con molto impegno per acquisire condizioni superiori ai suoi concorrenti, spinto dall’idea ingannevole che il ricco sia più felice; in realtà, essendo la capacità di godere dei beni fisiologicamente limitata, l’uomo ricco può consumare poco di più del povero, la cui minor quantità di beni è compensata dalle minori preoccupazioni e dalle migliori relazioni sociali rispetto al ricco che vive continuamente in ansia per i suoi beni, ed invecchia solo e deluso per non aver raggiunto la felicità e per di più invidiato dai suoi concittadini. Successivamente anche gli economisti Arthur Cecil Pigou, John Kenneth Galbraith (1958) e gli psicologi Brickman e Campbell (1971) hanno messo in evidenza l’utilità limitata del reddito sulla prosperità della persona o, più in generale, sul benessere sociale.

Quasi tutte le ipotesi per spiegare il paradosso rimandano alla necessità di inserire nell’analisi del patrimonio umano un’altra categoria di beni: gli aspetti relazionali (come l’ambito familiare, affettivo e civile della partecipazione alla vita sociale/volontariato e politica della propria comunità). Infatti numerose ricerche mettono in luce che per i rapporti relazionali (come ad esempio nel caso del matrimonio, dei figli, degli amici, dell’occupazione lavorativa, della salute), la capacità di adattamento e il senso delle aspirazioni non è totale e la felicità, pur diminuendo nel tempo rimane comunque più elevata. Secondo molti sarebbe da considerare nell’analisi economica anche il patrimonio ambientale su cui confluiscono gran parte delle cose esteriori negative, quali inquinamenti, non conteggiate nel bilancio della logica economica del mercato.

Possiamo affermare che la felicità è una combinazione fra reddito individuale e beni relazionali. Se è vero e ragionevole supporre che l’effetto complessivo del reddito  contribuisce direttamente alla felicità soprattutto per bassi livelli di reddito, bisogna anche considerare che, dopo aver superato una certa soglia, questo può diventare negativo poiché l’impegno per aumentare il reddito può produrre sistematicamente effetti negativi sui beni relazionali, sulla qualità e quantità delle nostre relazioni (ad esempio a causa delle risorse eccessive che impieghiamo per aumentare il reddito e che sottraiamo ai rapporti umani), e quindi indirettamente potrebbe smorzare, o addirittura ribaltare l’effetto totale diminuendo la felicità.

Le diverse ipotesi prima illustrate, insieme ai nostri limiti cognitivi e ai condizionamenti sociali spiegano perché inconsapevolmente restiamo irretiti dai mass media e dal feticismo dei piaceri e non ci comportiamo razionalmente, superando spesso il punto critico.

Una delle conclusioni sembra essere quindi che ricchezza (o utilità) e felicità (o benessere sociale) non sono la medesima cosa, perché per essere più felici non basta cercare di aumentare l’utilità (prodotti, beni, servizi), bensì, almeno in maniera prevalente, è necessario addentrarsi nella sfera della relazione tra le persone. Tra le tante soluzioni proposte, lo stesso Easterlin suggerisce che, poiché ciascun individuo possiede un certo ammontare di tempo da allocare tra diversi tasselli monetari e non (quali reddito e beni materiali, famiglia, stato di salute, lavoro, stabilità emotiva, autodisciplina) per aumentare la propria felicità, sarebbe meglio destinare il tempo agli impegni in cui l’adattamento epicureo e il confronto sociale diventino più importanti, ad esempio nei beni relazionali.

Così alcuni esperti, pur continuando a tenere in considerazione il PIL, hanno cominciato a valutare il BIL, cioè il Benessere Interno Lordo degli abitanti di una certa nazione, città o regione. A conferma di questo concetto, alcune indagini dell’OCSE, concludono che il benessere della popolazione non dipende soltanto dal denaro a disposizione ma anche dai rapporti sociali, dalle condizioni ambientali, dalla salute, dall’istruzione, dalla partecipazione alla vita politica e dalle attività personali.

Ciò non significa che il denaro non conti nulla, ma semplicemente che per vari motivi non possono garantirci una felicità profonda e completa. Dalla costruzione di questo discorso, si evince che esiste un punto oltre il quale gli incrementi di ricchezza non portano ad aumenti di felicità: ciò avviene perché l’assenza di problematiche da risolvere, quindi tranquillità sociale, all’inizio porta sollievo, ma successivamente genera noia. E la noia crea infelicità.

L’ultimo studio della Purdue University, nello Stato dell’Indiana, fissa in 77 mila euro per individuo l’apice delle U di Easterlin, ovvero lo stipendio perfetto, l’ideale per essere felice; analoga ricerca nel 2010 dell’Università di Princeton, si ferma a 57 mila euro; mentre il Newyorkese Marist Institute for Pubblic Opinion scende a 50 mila. Resta comunque il concetto che rafforza quella che ormai appare una teoria inattaccabile: una volta soddisfatti i bisogni di base, cibo e abiti, ma anche la possibilità di curarsi in modo decente, studiare, divertirsi di tanto in tanto, possedere soldi in più non solo non rende felici, ma si ritorce contro, rivelandosi fattore di infelicità.

Easterlin (1996) fornisce due principali spiegazioni del paradosso in questione, la prima delle quali riguarda i confronti interpersonali. In generale, la felicità, o il benessere soggettivo, varia direttamente con il proprio reddito ed inversamente con il reddito degli altri. Ad ogni dato istante, i redditi sono fissati e coloro che sono più ricchi, in media, si sentono più felici. Tuttavia, innalzare i redditi di tutti, non fa aumentare la felicità di tutti poiché, per ciascuno, l’effetto positivo sul benessere soggettivo prodotto dall’aumento del proprio reddito, è compensato dall’effetto negativo di un più elevato livello di vita medio che deriva dalla generale crescita dei redditi. La seconda spiegazione riguarda il fatto che, nella ricerca della felicità, gli individui finiscono spesso in una “trappola delle aspettative crescenti”: è il meccanismo per cui la soddisfazione derivante dall’acquisizione di un nuovo bene (per esempio, un’automobile migliore della precedente o una casa più bella e spaziosa), dopo un aumento temporaneo ritorna rapidamente al livello precedente in quanto gli individui si adattano alla nuova situazione e tendono a spostare sempre più in alto i loro desideri.

Ad abundantiam, l’Università di Trento, in collaborazione con l’Università La Sapienza di Roma ha creato un programma ad hoc, intitolato “L’arte della felicità”. Le risultanze sono state che la felicità è il frutto innanzitutto di un equilibrio interiore, di un’attitudine gentile nei confronti della vita e di una prospettiva aperta nei confronti di sé e del mondo.

Attraverso il tema della felicità e del desiderio le etiche postmoderne si aprono a questioni fondamentali, con cui hanno dovuto fare i conti le concezioni occidentali di tutti i tempi. Fra i primi quesiti, indagare se il destino è una forza metafisica e perciò immodificabile o se sia una convenzione sociale mutevole; indi se la libertà diventa accettazione o distruzione del fato e se il desiderio sia riconoscere e acconsentire al mondo che c’è, o se invece la libertà sia creazione immaginaria e surreale del mondo. In Martha Nussbaum, filosofa statunitense, felicità e desiderio si colorano di tinte etiche e pongono il problema dell’ordine esistente e della sua sovversione rivoluzionaria. 

Per Aristotele, il bene è ciò che rende felice la vita umana e viceversa la felicità consiste nel vivere bene e nell’agire correttamente. Non può essere confusa né con la fortuna, né tanto meno con il piacere o con l’onore o la ricchezza. La felicità non è mai senza il corpo, anche se non si identifica con le emozioni positive prodotte dal corpo. La felicità è la propensione al bene da parte dell’anima, che in questo suo dinamismo coinvolge anche il corpo a cui è intrinsecamente congiunta. Piacere, ricchezza, onore e simili sono beni che possono aiutare la felicità, ma essa si realizza sono in una «vita compiuta». In altre parole, per Aristotele l’uomo agente è l’artefice della propria felicità o infelicità; e conseguentemente lo è anche della felicità o infelicità altrui.

Per ampliare la casistica, molti studiosi occidentali moderni – anche filosofi del calibro di Bentham – identificano la felicità con il benessere, concetto diverso da quello di Easterlin. Anche la teoria economica ha spesso operato questa identificazione, finendo per costruire l’equazione: bene = benessere economico. Questo va a discapito del benessere sociale: la giustizia non può essere pensata come distribuzione di beni, ma come valorizzazione delle capacità personali. Senza questo riferimento concreto alle capacità, l’uguaglianza sarebbe semplicemente un valore vuoto e astratto. Le virtù sono atteggiamenti che il soggetto acquisisce e interiorizza attraverso il loro esercizio, fino a che esse costituiscono il suo habitus, cioè un modo di essere al tempo stesso naturale (perché sono disposizioni umane) e artificiale (perché acquisito attraverso la pratica e l’addestramento).

Per estendere la ricerca, analizzando i diversi filoni di studio, ricordiamo che nei suoi Taccuini americani del 1851, Nathaniel Hawthorne scrisse che “la felicità, in questo mondo, arriva incidentalmente. Se ne facciamo l’oggetto di una ricerca, ci conduce a una ricerca senza speranza, e non è mai raggiunta”. Si tratta fondamentalmente di una riformulazione del “paradosso della felicità” dei filosofi stoici: per ottenere la felicità, dobbiamo cercare di non raggiungerla.

Nel 2011, per esempio, alcuni ricercatori scrivono sulla rivista Emotion che in condizioni di basso stress, dare valore alla felicità era associato a toni dell’umore più bassi, a meno benessere e a sintomi di depressione più evidenti.

La cosa sembrerebbe confermare il paradosso della felicità: e cioè che pensarci la rende più difficile da ottenere. Ma ci sono spiegazioni alternative. Per esempio, le persone infelici potrebbero dire che “apprezzano la felicità” più di chi già la possiede, proprio come le persone affamate danno al cibo più importanza di quelle già sazie.

Quando si parla di felicità e infelicità, le persone spesso confondono il rimuginare con la consapevolezza di sé. Per gli psicologi nel primo caso si tratta di “ricorrenti pensieri su di sé”, senza ricorrere a nuove conoscenze. Molti studi provano che questo può esacerbare i cattivi pensieri e peggiorare la depressione, perché rafforza il nostro status quo emotivo negativo.

Al contrario la consapevolezza di sé, prestare attenzione ai nostri stessi processi di pensiero, porta a nuove conoscenze e scoperte. Un recente studio pubblicato negli Stati Uniti dai Proceedings of the National Academy of Sciences ha concluso che l’autocoscienza ci permette di riconoscere le distrazioni e i segnali emotivi e di reindirizzare il nostro cervello in un modo produttivo. In sostanza, studiare la nostra stessa mente, soppesando il modo di migliorare la nostra felicità, raccoglie le ansietà incipienti e le divagazioni mentali e le trasforma in reali piani di miglioramento delle nostre vite.

L’autocoscienza sposta i sentimenti d’infelicità dalle funzioni reattive del nostro cervello a quelle esecutive che ci permettono di gestire i sentimenti attraverso un’azione concreta. Il fatto stesso di agire è fondamentale. C’è una vecchia barzelletta in cui un napoletano chiede a San Gennaro ogni giorno di fargli vincere la lotteria. Dopo molti anni di preghiera, ottiene finalmente una risposta dal santo: “Vienimi incontro”, compra almeno un biglietto”.

L’infelicità spesso ci spinge a rimanere nel nostro bozzolo. È stato dimostrato che insegnare i problemi aritmetici alle altre persone migliora l’abilità delle persone nel risolverli e lo stesso vale per lo studio della felicità: condividere l’esperienza la fissa nel nostro cervello.

Quando condividiamo il sapere su come diventare più felici, convinciamo tanto gli altri quanto noi stessi. Si tratta di un fenomeno noto in psicologia, che chiedere alle persone di sostenere un’idea può essere un ottimo modo per convincerle a crederci a loro volta. Condividere i segreti della felicità ci renderà più felici, perché farlo è un atto d’amore. Infatti l’amore è generativo: più si offre, più si ottiene. Come tutte le cose della vita per cui valga la pena lottare, la ricerca della felicità richiede energia intellettuale e un vero sforzo, nell’ambito di presenza di etica individuale e sociale.

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About Giuseppe Rocco

Esperto di commercio estero. Vice Segretario generale della Camera di commercio di Bologna sino al 31.1.2007; Docente esterno presso l’Università di Bologna, Istituto Economico della Facoltà di Scienze politiche, in qualità di cultore dal 1990 al 2006, di “Istituzioni Economiche Internazionali” e in aggiunta dal 2002 al 2006 di “Diritti umani”; Pubblicista iscritto all’Albo dei Giornalisti dal 1985; 450 articoli per 23 testate nazionali; in particolare consulente del Il Resto del Carlino, in materia di Commercio internazionale, dal 1991 al 1995; Saggista ed autore di 53 libri scientifici ed economici; Membro del Consiglio di Amministrazione del Centergross dal 1993 al 2007;Membro del Collegio dei periti doganali regionali E. Romagna, per dirimere controverse fra Dogana ed operatori economici dal 1996 al 2000, con specificità sull’Origine della merce.