Meritocrazia subdola. Il focus di Giuseppe Rocco

I governi nazionali devono garantire a tutti pari opportunità nel ricevere istruzione da cui dipende il successo. Questa affermazione evoca la notizia del marzo 2019, quando i procuratori federali degli Usa annunciano che trentatré ricchi genitori erano accusati di aver preso parte a un sistema fraudolento per far ammettere i propri figli in università di élite, quali Yale, Stanford, Georgetown e la University of Southern California. Un consulente senza scrupoli (William Singer) pretendeva una quota di 75.000 dollari per il superamento del test d’ammissione. L’esempio dello scandalo delle ammissioni ai college è un esempio convincente della iniquità, molto diffusa, che pregiudica il principio di meritocrazia.

In una società caratterizzata da disuguaglianza, quanti stanno ai vertici vogliono credere che il loro successo sia giustificato dal punto di vista morale. Dietro la rivolta populista, si può leggere il trionfo della Brexit, l’elezione di Donald Trump, l’ascesa di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, la nuova immagine del lavoro non più per tutta la vita. La perdita di status economico e culturale dei lavoratori negli ultimi decenni ha prodotto la situazione di anomia, fenomeno in cui si perde l’identità e si fa ciò che si vuole. In questo nuovo modello artificioso, viene contestata la selezione della classe dirigente, poco basata sulla meritocrazia.

La globalizzazione forsennata del mercato è stata avviata in sede anglo-americana. Ronald Reagan e Margaret Thatcher hanno creduto nel libero mercato senza restrizioni; in seguito Bill Clinton e Tony Blair, sebbene con toni moderati, hanno confermato la fede nel mercato; l’energia morale di Obama è svanita nel tempo. Le scelte liberali hanno parzialmente favorito la globalizzazione smoderata, poiché il vero danno è arrivato dal mercato finanziario, manipolato e corrotto nella totale inversione delle leggi costruttive della Borsa valori. I derivati si sono rivelati dei veri e propri congegni esplosivi. Cosa abbastanza seria e preoccupante è che gli economisti, politici e Capi di Stato non si accorgono dei danni così rilevanti.

Non sempre purtroppo l’etica è stata un baluardo da rispettare. Lo abbiamo constatato durante l’anarchia dei signorotti feudali, tutti contro tutti. Si è rivelato inconsistente nell’Italia del Cinquecento, con Stati e staterelli in guerra fra loro e continui tradimenti. Prima con i francesi, poi con gli spagnoli, poi con i lanzichenecchi luterani, quando il duca di Ferrara e quello di Mantova, tradiscono Giovanni delle Bande nere, aprendo loro la strada al saccheggio di Roma.

Non si ha certezza sulla selezione dei talenti, ma, ammesso che la selezione avvenga secondo la meritocrazia, il divario dei guadagni è enorme, con un rapporto eccessivo. Si ha così la tirannia del merito. La tracotanza meritocratica riflette la tendenza dei vincitori a godere troppo del proprio successo, dimenticandosi della fortuna e della buona sorte che li ha aiutati nel proprio cammino. Vista dal basso, la spavalderia della élite è irritante. Questa caratteristica trasforma la politica dell’umiliazione in un sentimento più esplosivo di altri, in un potente elemento di quella sostanza volatile composta di rabbia e di risentimento che alimentala la protesta populista.

Dovrebbero governare i più meritevoli. Nell’antico oriente Confucio insegnava che dovevano governare quanti eccellessero in virtù e capacità; nell’antica Grecia Platone immaginava una società retta da un filosofo, coadiuvato da guerrieri con senso civico; Aristotele respingeva l’idea del capo filosofo ma confermava l’utilizzo dei meritevoli alla guida degli affari pubblici; anche i padri fondatori della Repubblica americana invocano uomini di merito al comando, in particolare virtuosi e sapienti. La realtà si presenta diversa. Non esiste dibattito politico ma soltanto dicktat di potere: le scelte vengono compiute dalle banche centrali, dai mercati obbligazionari, dalle lobby aziendali, dai partiti, dalle multinazionali. Oltre a svuotare di significato la dimensione pubblica, il regno del finto meritocratico ridefinisce i termini del riconoscimento sociale, in modo di aumentare il prestigio delle classo dotati di credenziali e svalutare il contributo dei lavoratori, con effetti erosivi sulla loro posizione e stima sociale.

L’idea che la società assegni ricompense economiche e posizioni di responsabilità in base al merito è auspicabile per svariate ragioni. Una società meritocratica afferma un’idea potente di libertà e conferisce ai cittadini ciò che si sono guadagnati e che perciò meritano. Il lato oscuro formale dell’ideale meritocratico è racchiuso nella promessa più seducente, quella di essere padroni di sé stessi e di farsi da sé. Il lato pratico è altrettanto rischioso poiché nel percorso giocano tanti elementi (salute, famiglia, partito, buona sorte). Vi è ancora un lato moralmente inaccettabile, vissuto negli americani, secondo cui chi non ha successo o è povero è un incapace: mentalità diabolicamente liberale, lontana da ogni etica.[1]

La riforma protestante nasce per contrastare il merito. L’opposizione di Martin Lutero contro la Chiesa riguarda parzialmente la vendita delle indulgenze, pratica corrotta con la quale persone ricche tentavano di comprare la via della salvezza. Sulla scia di Agostino, si ritiene che la salvezza è interamente una questione di grazia divina e non può essere influenzata da sforzi per conquistarsi il favore di Dio. Nella pratica la condotta di Lutero dopo è divenuta completamente meritocratica. Addirittura Giovanni Calvino, la cui teologia ispira i puritani, ritiene (come Lutero) che la salvezza fosse una questione di grazia divina e non determinata dal merito o dalla preghiera. La dottrina calvinista della predestinazione conduce ad un destino divino.

Dimostrare il proprio stato di grazia attraverso l’attività mondana riporta in campo la meritocrazia. I monaci del Medioevo costituivano una specie di “aristocrazia spirituale”, che perseguivano la propria vocazione ascetica al di sopra delle occupazioni temporali. Il calvinismo in effetti sostituisce l’aristocrazia spirituale dei monaci, in quanto sono chiamati a dimostrare la propria fede in attività temporali, con l’ancoraggio dell’etica alla dottrina della predestinazione. Dalla storia si evince che l’etica protestante del lavoro, oltre a favorire il capitalismo, promuove l’etica dell’aiuto personale e della responsabilità per il proprio destino congeniale alla visione meritocratica.

In effetti i nostri atteggiamenti verso il successo non sono così indipendenti dalla fede provvidenzialistica. L’idea che non siamo agenti liberi ma abbiamo necessità di una base divina diviene un aspetto della meritocrazia. La tirannia del merito deriva pure da questo impulso. La combinazione dell’impegno umano con la ratifica provvidenziale crea una spinta potente per la meritocrazia. La crisi finanziaria del 2008 rappresenta un chiaro esempio della tracotanza della provvidenza. Il comportamento rischioso sembrava giustificato da propri poteri, rivelatasi fasulli.

In questo campo minato, si assiste ad una serie di prese di posizioni strampalate. Quando nel 2005 l’uragano Katrina devasta la città di New Orleans, il reverendo (forse poco reverendo) Franklin Graham dichiara che il ciclone è un castigo divino per una città depravata; l’attacco terroristico dell’11 settembre al World Trade Center di New York viene definito dal reverendo (sempre poco reverendo) Jerry Falwell un castigo divino per i peccati dell’America; Il terremoto giapponese del 2011, che provoca una fusione del nocciolo dei reattori nella centrale nucleare di Fukushima, viene dichiarato dal governatore di Tokyo come castigo divino per il materialismo giapponese. Spiegare catastrofi epiche come un castigo richiama soltanto una liturgia di miti superstiziosi, che nulla a che vedere con il merito. Considerare la salute e la ricchezza come questioni di lode e di biasimo è certamente un modo meritocratico. Qualsiasi cosa accada è una ricompensa o una punizione per le scelte che noi compiamo e per il modo come viviamo. Una tracotanza inverosimile!

Le scelte sono importanti, poiché dotate di capacità o meno, e vanno inserite nella situazione storica. Il collasso dell’Unione sovietica e la caduta del muro di Berlino portarono a credere che il modello di capitalismo basato sul libero mercato fosse l’unico rimedio. Nasce così una nuova versione neoliberale della globalizzazione, nella erronea convinzione che l’espansione dei mercati avrebbe incrementato l’interdipendenza globale, ridotto la probabilità di una guerra fra nazioni, moderate le identità nazionalistiche e promosso il rispetto dei diritti umani. Le cose sono andate diversamente. Il progetto di globalizzazione selvaggia porta la crisi finanziaria del 2008; il nazionalismo e l’autoritarismo sono esplosi sino a minacciare le istituzioni e le regole liberali all’interno delle società democratiche.

Il trionfalismo del mercato degli anni ottanta porta all’articolazione della logica meritocratica. Il feticismo del mercato produce una frustrazione che sale quando il sistema disattende le sue promesse meritocratiche, quando coloro che lavorano sodo e giocano secondo le regole, non riescono ad avanzare. A questo si aggiunge la disperazione che sorge quando essi credono che la promessa meritocratica sia stata realizzata e loro ne sono esclusi.

Una società perfettamente mobile è un ideale stimolante perché esprime una necessaria libertà ed esprime la speranza che ciò che otteniamo rifletta quello che meritiamo. L’importante che tutti partano dallo stesso punto di partenza nella competizione, avendo avuto equo accesso all’allenamento, alla formazione, all’alimentazione e così via. In tal modo i vincitori della gara meritano il premio.  In verità la meritocrazia non è un rimedio alle diseguaglianze ma una giustificazione alle disuguaglianze.

Come reagisce il legislatore italiano? Con l’inerzia. Dirigenti politici di grosso calibro avrebbero dovuto intervenire e frenare l’intemperanza dei maleducati, ma nulla si scorge all’orizzonte. Gli esempi televisivi non sono encomiabili: trasmissioni con protagonisti divi inneggianti al dissenso, taluni nei termini e nei modi incoraggiano persino gli atteggiamenti immorali. La parolaccia è divenuta un rito sullo schermo, ove si alternano squallide figure.

I nostri talenti sono doni per i quali siamo debitori verso la lotteria genetica e quindi diventa un errore ritenere di meritare i benefici che da essi derivano. Nel concreto, il successo è un composto di talento e di sforzo rispetto al quale non è facile fare distinzioni. Il problema importante resta il compenso da offrire a chi si trova in certe posizioni: a calciatori, presentatori o manager vengono consegnate risorse pari a 500 volte superiori. Siamo di fronte ad un eccesso di compenso raffrontato alle prestazioni effettivamente svolte. Questa è una meritocrazia selvaggia, immorale e antidignitosa, che provoca un effetto demoralizzante, accrescendo l’invidia e il risentimento causati dalla enorme differenza.

La stima sociale si riversa in modo ineluttabile su coloro che godono di vantaggi economici e istituzionali, soprattutto se beneficiano di questi vantaggi in condizioni eque di cooperazione sociale.  L’allocazione di onore e reputazione è una questione politica di cruciale importanza. Aristotele riteneva che la giustizia avesse soprattutto a che fare con la distribuzione delle cariche e non con la distribuzione di reddito.

Il libero mercato e il liberalismo egualitario rifiutano ambedue il merito come principio di giustizia. Nessuno dei due contrasta gli atteggiamenti moralmente poco allettanti nei confronti del successo e del fallimento. I liberali egualitari attribuiscono la diseguaglianza di reddito, in gran parte ai risultati di lotteria genetica. I talenti attirano sempre ammirazione nelle società meritocratica, nonostante sia accertato che il successo di far soldi ha poco a che fare con l’intelligenza innata. La tirannia del merito non significa che il merito non dovrebbe essere considerato; vuol dire affrontare le diverse condizioni determinate nella vita nella stima ed evitare i risentimenti che scaturiscono dalla crudeltà del merito, con un atteggiamento sociale riconosciuto.

Non è facile trovare la certezza in un campo così minato. Secondo una ricerca di Suniya S. Luthar, i giovani che vivono in ambienti ricchi sperimentano i più alti tassi di depressione, di abuso di sostanze, di disturbi legati all’ansia, di somatizzazioni e di malesseri. Spesso un genitore molto colto può pregiudicare la crescita normale psicologica, in quanto il giovane teme di deludere il genitore e cade nella trappola della depressione. Una suggestione del genere appare compatibile con la concorrenza sociale spregiudicata, lievitata nella globalizzazione neoliberale.

Aristotele sosteneva che la fioritura umana dipende dalla realizzazione della nostra natura, coltivando ed esercitando le nostre capacità. L’obiettivo è vivere in un ambiente gradevole. Tutto ciò dipende dal lavoro, come afferma Papa Giovanni Paolo II nella lettera enciclica del 1981. Il Santo Padre puntualizza che attraverso il lavoro l’uomo realizza sé stesso. Al riguardo si può citare anche Hegel, il mercato del lavoro è un sistema di riconoscimento. Queste testimonianze confermano la validità del lavoro, come componente principale, deontologica ed etica.

La meritocrazia totale è impossibile perché viene vanificata da quattro elementi: salute, famiglia, partiti politici o assimilati, sorte. Una persona gracile ha poche chance in una società spietata nella concorrenza; cosa verificata anche nel passato quando un soldato robusto poteva affrontare guerrieri e batterli mentre un tipo gracile doveva star lontano dalle battaglie. La famiglia benestante può meglio preparare i figli e motivarli, senza contare l’aiuto diretto con le conoscenze ad un certo livello. Il partito o altra associazione ha i poteri per meglio sistemare i suoi affiliati, proprio perché deve indicare nominativi per certe posizioni di comando. La sorte gioca un ruolo enorme, scegliendo nella vita tante situazioni: il peso viene indicato circa su un terzo dei successi o degli insuccessi.

Nella recente storia della politica italiana, è scomparso dai programmi dei partiti e dalla propaganda la ricerca dei dirigenti professionali. A scuola la Lega preme per l’assunzione in ruolo di un esercito di precari non abilitati, anche a costo di organizzare farseschi percorsi formativi. Nell’industria il Pd promuove una riforma degli ammortizzatori sociali che garantisca una rendita blindata e improduttiva, scoraggiando l’impegno del lavoratore espulso a reinventarsi. Il movimento Cinquestelle punta sul reddito di cittadinanza, estraneo alle narrazioni egemoni di saggezza politica.

La crisi della globalizzazione ha posto il merito sul banco degli imputati. La rediviva ideologia marxista lo vede come un ostacolo al piatto egualitarismo redistributivo che persegue. Il populismo conservatore di destra lo identifica in quella élite cognitiva e tecnocratica ritenuta responsabile della crisi finanziaria e incapace politicamente di porvi rimedio. Così la filosofia del merito, usata e abusata più o meno da tutti fino a pochi anni fa, è stata soppiantata dalla retorica della lotta alle diseguaglianze, di cui il merito oggi è considerato la causa.

Fra storici, politici e giornalisti, Il giudizio suona come un’abiura e consegna la nozione di merito all’esclusiva del neoliberismo. Sembra così chiudersi una parentesi liberale, in cui timidamente il merito era stato assunto anche a sinistra come la leva per tendere a una società più giusta, in grado di garantire una effettiva eguaglianza di opportunità a tutti. Non è più il fantasma dell’autorità, demolita dalle battaglie del sessantotto, a istigare la sinistra al divorzio dal merito, ma l’idea che una società meritocratica crea ineguaglianze profonde, attivando non solo una mobilità sociale dei migliori verso l’alto, ma anche una verso il basso, costituita da una classe discendente di ex ceto medio, minacciosa per la coesione sociale e magari anche foriera del populismo.

L’irrilevanza delle politiche riformiste, tanto alla fine della prima Repubblica quanto al confine della Seconda, deriva dalla timidezza con cui è stato interpretato il merito per riattivare l’ascensore sociale e sfidare la crescente corporativizzazione del sistema, che è in parte figlia di una cultura di diritti senza doveri da cui la politica si è fatta irretire.

C’è da chiedersi, però, quale prezzo paghi una società le cui posizioni di vertice non siano occupate in base al merito, ma in base a un sistema che garantisce la leadership secondo un’astratta idea di uguaglianza.

Dobbiamo prendere atto di un rinnovamento del riformismo, per il quale il merito non è il presupposto di un vantaggio individuale, ma la leva di una responsabilità pubblica, che affida ai migliori l’obiettivo di promuovere e sostenere il cambiamento e i suoi costi. Un Paese senza dirigenza meritocratica diventa la democrazia dei furbi e dei mediocri, che calpesta l’orgoglio di far valere il proprio talento e i propri sacrifici, discrimina i più deboli, innaffia il nepotismo. Invece deve dimostrare come il merito sia il volto più autentico della giustizia sociale e travolga la democrazia corporativa ed arida per conferire un’energia rivoluzionaria che la storia pretende.

Nel Paese da decenni è in atto un lento e progressivo processo di degrado, che ha marginalizzato il merito e che sta premiando persone prive di talento per assumere incarichi rilievo. Questo spiega pure la discesa economica del Belpaese. Nel 1991 l’Italia era la quarta potenza industriale al mondo, dopo Usa, Giappone e Germania; alla fine della prima repubblica eravamo stati superati dal Regno Unito; oggi siamo al decimo posto. Altri sintomi tendono a denunciare la caduta italiana: un debito pubblico sempre più ingente, la mancanza di una classe dirigente all’altezza dei tempi, la minaccia di una possibile uscita dall’euro, la disuguaglianza sociale, la piaga dell’evasione, la potenza della mafia. In uno scenario che risente della globalizzazione, la finanza speculativa ha assunto una rilevanza strategica e una valorizzazione immeritata a danno dell’economia reale e pulita.

Assumendo una visione sociale, possiamo verificare che la rete, ossia la connessione fra tutti i personal del mondo, ha creato un sapere universale, a disposizione di ognuno di noi in qualsiasi momento. Siamo tutti esperti, tutti professori, tutti decisori: così la competenza va in soffitta e avvertiamo un vero e proprio delirio di onnipotenza. La rete contiene tutto il sapere dell’umanità e si traduce nella possibilità di padroneggiare tutti i temi. Purtroppo aver letto qualche nozione in rete non significa essere esperto della materia; a volte la rete riporta pure delle sciocchezze e una persona impreparata può cadere nella trappola; resta comunque la contraddizione nel non sapere e nel sapere, in cui si fatica a trovare il diaframma. Forse aveva ragione Indro Montanelli, quando affermava che “I bordelli sono le uniche istituzioni italiane in cui la tecnica viene rispettata e la competenza riconosciuta”.

La percentuale di popolazione attiva, cioè di quelli che lavorano in Italia è la più bassa in Europa assieme alla Grecia. Questo dato è davvero preoccupante, poiché il lavoro è l’essenza della vita, il punto di forza dell’uomo, l’emblema della dignità umana, il veicolo del guadagno. Non potendo contare sul merito, l’omologazione di massa avvia un processo di reificazione, ossia di riduzione della vita a cosa: in tale scenario l’individuo è manipolato dai mass media in modo totalmente incolore e senza quel senso autentico di voglia di migliorarsi.

Nella complessità degli uomini-oggetto e la caduta della meritocrazia, si può far riferimento al cosiddetto principio ironico di Peter[2] che recita “Ogni membro di un’organizzazione gerarchica sale nei livelli della gerarchia sino a raggiungere il suo massimo livello di incompetenza”. Nel pungolo dell’umorismo vi può essere un fondo di verità, in particolare nella burocrazia statale, nella magistratura, nel sindacato e nei partiti politici. Le promozioni avvengono all’interno di una struttura gerarchica, premiando un bravo elemento nello svolgere le sue mansioni, ma non sempre chi svolge mansioni accettabili è in grado di svolgere mansioni superiori diversi. Come il caso di un bravo insegnante nella usa materia, non sempre può essere il preside, poiché occorrono capacità relazionali e organizzative, non richieste al docente. Stessa ragionamento per i fallimenti di aziende familiari, durante i passaggi generazionali. Il principio di Peter, anche se in forma provocatoria e paradossale, punta l’indice accusatorio contro quei meccanismi che coltivano scatti automatici e spesso nell’ignoranza sociale.

Pur riconoscendo le varie tesi liberali o restrittive, resta una grossa fetta di incidenza dovuta alla sorte, cioè essere al posto giusto nel momento storico. Difficilmente la fortuna aiuta gli abulici. Vi sono desideri che per essere raggiunti hanno bisogno di una ferrea disciplina e un tocco di passione. Gli ingredienti della disciplina sono tre: una forte motivazione che spinge a sacrificare altri interessi; l’applicazione costante di giusti comportamenti tesi al raggiungimento del risultato; la costanza nel dominare sé stessi. Tutto ciò crea il merito, quello obiettivo che chiedono tanti giovani che scappano all’estero per aver soddisfazione dei propri talenti.  


[1] Diversa la componente religiosa, come nel libro di Giobbe, uomo giusto e retto viene sottoposto ad indicibile dolore e sofferenza, tra cui la morte dei figli in una tempesta. Sempre fedele a Dio, Giobbe non comprende perché sia toccata proprio a lui una simile sofferenza, Non si rende conto di essere vittima di una scommessa cosmica, in cui Dio cerca di dimostrare a Satana che la fede di Giobbe non vacilla di fronte a nessuna difficoltà. Siamo anche qui nella tirannia del merito.

[2] Lo psicologo canadese Laurence J. Peter, autore di un libro che illustra l’intuizione.

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About Giuseppe Rocco

Esperto di commercio estero. Vice Segretario generale della Camera di commercio di Bologna sino al 31.1.2007; Docente esterno presso l’Università di Bologna, Istituto Economico della Facoltà di Scienze politiche, in qualità di cultore dal 1990 al 2006, di “Istituzioni Economiche Internazionali” e in aggiunta dal 2002 al 2006 di “Diritti umani”; Pubblicista iscritto all’Albo dei Giornalisti dal 1985; 450 articoli per 23 testate nazionali; in particolare consulente del Il Resto del Carlino, in materia di Commercio internazionale, dal 1991 al 1995; Saggista ed autore di 53 libri scientifici ed economici; Membro del Consiglio di Amministrazione del Centergross dal 1993 al 2007;Membro del Collegio dei periti doganali regionali E. Romagna, per dirimere controverse fra Dogana ed operatori economici dal 1996 al 2000, con specificità sull’Origine della merce.